In questo numero:

  • Brevi osservazioni sul nuovo istituto del “bail in”
  • Compliance, problematiche organizzative e necessità regolamentari

Editoriale

BREVI OSSERVAZIONI SUL NUOVO ISTITUTO DEL “BAIL IN”

Dal 1° gennaio del 2016 in ipotesi di rischio di default di una Banca, non sarà più lo Stato ad intervenire con propri fondi: la Direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie prevede che a farsi carico delle perdite siano i medesimi privati, innanzitutto azionisti ed obbligazionisti ed in seconda battuta i correntisti titolari di rimesse per importi superiori ai 100.000,00 (soglia al di sotto della quale continua ad operare il Fondo Interbancario di tutela dei Depositi). Solo in via residuale resta la possibilità dell’intervento di un fondo ad’hoc, finanziato dalle banche stesse.

La normativa di riferimento è costituita dalla Direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014 (c.d. direttiva BRRD: Bank Recovery and Resolution Directive), finalizzata all’istituzione di un quadro di risanamento e risoluzione per gli enti creditizi e le imprese d’ investimento.

La mancanza di specifici strumenti idonei a consentire una efficace gestione della crisi degli enti creditizi e delle imprese d’ investimento ed in grado di garantire la prevenzione di stati di insolvenza, ovvero la riduzione delle conseguenze negative che da tali stati di insolvenza possano derivare, ha determinato il Legislatore europeo ad individuare strumenti atti ad impedire che gli Stati membri si vedano costretti a procedere al salvataggio degli enti creditizi intervenendo con fondi pubblici, con ogni conseguente ripercussione sui contribuenti. In particolare la Direttiva BRRD esprime chiaramente la preoccupazione che la forte interconnessione ormai esistente tra i mercati finanziari dell’Unione, facilitata dall’operatività di molti enti creditizi oltre i confini nazionali, possa concorrere alla verificazione di un “effetto domino” per cui il dissesto di un ente transfrontaliero può facilmente compromettere la stabilità dei mercati finanziari in diversi Stati membri in cui l’ ente dovesse operare. Da qui l’esigenza d’impedire che l’incapacità di uno Stato membro di far fronte al dissesto di un ente creditizio possa generare un “danno sistemico” più ampio, con ogni conseguenza rispetto alla fiducia reciproca degli Stati membri ed alla credibilità del mercato interno, per il cui corretto funzionamento la stabilità dei mercati finanziari è essenziale.

Ulteriore considerazione del Legislatore europeo è stata la presa di coscienza della sostanziale diversità delle procedure di risoluzione della crisi degli enti creditizi e la frammentarietà della normativa, non organica a livello europeo ed assolutamente particolare e differenziata a livello di ciascuno Stato membro.

L’esigenza di un sistema uniforme che garantisca interventi precoci e rapidi, in grado di assicurare la continuità delle funzioni finanziarie ed economiche essenziali dell’ente, impone il tempestivo avvio di processi di ristrutturazione gestiti da autorità indipendenti – le c.d. autorità di risoluzione – che, attraverso l’utilizzo di tecniche e poteri offerti ora dalla BRRD, consentano di evitare interruzioni nella prestazione dei servizi essenziali offerti dalla banca (ad esempio, i depositi e i servizi di pagamento), di ripristinare condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e a liquidare le parti restanti. L’alternativa alla risoluzione sarebbe infatti la liquidazione (e, con specifico riferimento alla normativa italiana, quella disciplinata dal T.U.B., che costituisce una procedura speciale per le banche e gli altri intermediari finanziari, sostitutiva del fallimento applicabile alle imprese di diritto comune).

Tale quadro ha determinato l’individuazione negli azionisti in prima battuta, e nei creditori in seconda, i soggetti chiamati a sostenere per primi le perdite dell’ente creditizio (fermo il limite della perdita massima pari a quella che sarebbe stata comunque subita laddove l’ente creditizio fosse stato messo in liquidazione secondo l’ordinaria procedura d’ insolvenza).

In quest’ottica di armonizzazione delle normative nazionali dei vari Stati membri e, soprattutto, in attuazione della normativa europea, il 2 luglio scorso il Parlamento italiano ha approvato la legge di delegazione europea contenente la delega al Governo per il recepimento della direttiva BRRD.

Ma come si concretizza il bail in?

Quando una Banca versi in una condizione di crisi, l’autorità di risoluzione potrà sottoporre l’ente creditizio alla procedura di risoluzione se:

a) la banca sia in dissesto o a rischio di dissesto;

b) non sia possibile utilmente ricorrere a misure alternative di natura privata (quali aumenti di capitale) o di vigilanza;

c) la liquidazione ordinaria della Banca non permetterebbe di salvaguardare la stabilità sistemica, di proteggere depositanti e clienti, di assicurare la continuità dei servizi finanziari essenziali.

Quando concorrano queste tre condizioni la procedura di risoluzione diviene necessaria in quanto rispondente ad un interesse pubblico e, potremmo aggiungere, sovranazionale.

La procedura di risoluzione prevede, tra le varie ipotesi 1) la cessione in tutto o in parte ad un privato delle azioni dell’ente in crisi; 2) la creazione di una bridge bank cessionaria di tutti i beni e di tutti i rapporti giuridici dell’ente in crisi; 3) la creazione di una società veicolo per la gestione delle attività (la cosiddetta bad bank) a cui conferire alcuni beni dell’intermediario, per amministrarli e massimizzarne il valore di lungo periodo.

In questo quadro si inserisce il bail in, al quale sarà possibile far ricorso ogni qual volta l’azzeramento del capitale di una Banca non sarà sufficiente a coprire le perdite e che si concretizzerà nell’intervento dei privati, azionisti, obbligazionisti ed in ultima battuta correntisti (per importi superiori ai 100.000,00 euro) attraverso la svalutazione delle azioni e dei crediti ai fini del massimo assorbimento delle perdite e della ricapitalizzazione dell’ente creditizio.

L’intervento pubblico sarà previsto soltanto in circostanze straordinarie per evitare che la crisi di un intermediario abbia gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema finanziario nel suo complesso. L’attivazione dell’intervento pubblico, come ad esempio la nazionalizzazione temporanea, richiede comunque che i costi della crisi siano ripartiti con gli azionisti e i creditori attraverso l’applicazione di un bail in almeno pari all’8 per cento del totale del passivo.

Il decreto legislativo che disciplina l’entrata in vigore della direttiva BRRD, dopo il primo via libera del Consiglio dei ministri del 10 settembre scorso, potrà essere definitivamente approvato successivamente al parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari.

Ora, se il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi concorre alla realizzazione di una più concreta Unione bancaria, anche attraverso il sostanziale contenimento di quei vantaggi competitivi sino ad oggi concessi alle banche di alcuni paesi, non mancano dubbi sulla legittimità della normativa che prevede il salvataggio dell’intermediario attraverso l’intervento di privati azionisti, obbligazionisti e, in ultima battuta, finanche correntisti.

Profili di legittimità, in particolare, si pongono rispetto alla necessità di contemperamento dell’interesse pubblico (volto a scongiurare ripercussioni generalizzate ed anche transfrontaliere sui contribuenti europei) con l’interesse privato a veder tutelati i propri beni: interesse che, in molti Ordinamenti nazionali come il nostro, ha evidentemente rilevanza costituzionale.

La Costituzione italiana, in particolare, sancisce la tutela del risparmio con la previsione di cui all’articolo 47 ai sensi del quale: “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”: ebbene, il recepimento della Direttiva BRRD deve necessariamente essere conciliato con il principio per cui una normativa europea non può derogare una norma costituzionale interna del singolo Stato membro.

COMPLIANCE, PROBLEMATICHE ORGANIZZATIVE E NECESSITÀ REGOLAMENTARI.

Ne parliamo con Alessandro Adotti, Partner del nostro Studio e Condirettore del Ma.Co.M. – Executive Programme in Management della Compliance della LUISS Business School.

1. Per le aziende oggi è sempre più importante gestire le problematiche collegate al rischio di non compliance: quali possono essere gli impatti?

A mio avviso esistono due tipi di impatti. Il primo è quello che può derivare dalla mancata o carente gestione del tema della compliance, nei suoi molteplici aspetti regolamentari; il secondo è certamente un impatto organizzativo e gestionale. Gli impatti della non compliance possono essere molto seri e possono avere ricadute non solo di tipo legale (quali sanzioni o procedimenti, anche di tipo penale) ma gli impatti possono essere anche di tipo reputazionale e questi ultimi possono generare una percezione dell’azienda negativa, con ulteriori ricadute rispetto al gradimento pubblico della stessa le quali, infine, possono anche tradursi in significative riduzioni dei profitti nel tempo. Quanto agli aspetti organizzativi e gestionali, penso alla necessità di dotarsi di uno o più presidi in materia di compliance (tipicamente, nel nostro ordinamento, l’Organismo di Vigilanza ai sensi del D. Lgs. 231, o il “compliance officer”, o il “delegato di funzioni” in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, ecc.) ed agli impatti sui budget del “costo della compliance”, impatti, peraltro, di cui non bisogna avere paura perché corrispondono ad una gestione sana dell’azienda e, soprattutto, alla limitazione del rischio di perdite che la non compliance sicuramente comporta.

2. Quali sono i settori in cui, in Italia, ha maggiormente attecchito il tema della compliance e quali potrebbero essere i nuovi paradigmi utili ad agevolare un incremento dell’efficacia di questo sistema?

Se parliamo solo della compliance in senso stretto, direi che i settori di maggiore interesse sono quelli connessi alla normativa del D. Lgs. 231 (in materia di responsabilità amministrativa degli enti per comportamenti di rilievo penale dei dipendenti ed altre figure collegate all’ente) ed alle normative ambientali e di tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. Tuttavia esiste un perimetro molto più ampio della compliance che include la privacy, la governance societaria ed altre aree di grande rilievo. Di compliance, per esempio, si parla anche nel settore fiscale ed esistono settori fortemente regolamentati in cui vi è la necessità di rispettare una compliance, diciamo così, specifica: penso al mondo delle imprese bancarie ed assicurative od alle società quotate. In termini di paradigmi utili per agevolare un incremento dell’efficacia del sistema, se per efficacia intendiamo un incrocio virtuoso tra la maggiore osservanza della compliance ed i minori costi collegati al rispetto delle regole (in cui sono inclusi anche gli standard auto-organizzativi di numerose aziende: le cosiddette policies), credo che ogni possibile semplificazione sia utile.

Rispettare la compliance in una giungla normativa è difficile ed, anzi, per definizione, la giungla normativa aumenta il rischio di non compliance.

3. È corretto affermare che le aziende devono sempre più evolversi, a tutti i livelli, verso una vera e propria “cultura” della compliance?

E’ corretto. Prima che regola, la compliance deve essere percepita come valore ed opportunità. Valore perché la compliance deve informare il modo di essere (la mission, direi) e di essere percepita dell’azienda, a tutti i livelli, specie quelli di vertice nell’“ethos” imprenditoriale; opportunità perché la ricerca della compliance mette in condizione tutti di riflettere sulla possibilità di fare meglio il proprio lavoro in un contesto in cui la creazione di profitto può rimanere centrale se a questo si accompagna la consapevolezza delle ricadute della compliance o della non compliance.

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